Gli ultimi custodi del fuoco

“La tradizione è custodia del fuoco e non adorazione della cenere”.

Questo post nasce senza la pretesa che venga compreso e condiviso, né con immediatezza, né in questo tempo. E’ uno scritto personale, intimo, per i posteri, a disposizione di chi vorrà discutere rispettosamente – non in questo spazio – avendo ben dinnanzi, prima di iniziare, il privilegio che vicendevolmente abbiamo di essere parte di questa narrazione. Non è scontato (abbiamo l’onere e l’onore di trasportare una tradizione secolare senza esserne i possessori) e, soprattutto, non a tutti chiaro.

George Orwell, nel 1984, scriveva: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Ogni nostro gesto trasporta grandi responsabilità non solo nei confronti di chi verrà dopo di noi, ma anche rispetto ai nostri predecessori. Siamo ancora in tempo a cambiare il passato. E questo passaggio a molti non è immediato.

Se qualcuno pensa di trovare una descrizione degli eventi che hanno portato a una nuova dimensione del Carnevale di Bagolino, questo post non fa per voi (cercate nel web e vi sarà dato: da taluni per creanza, da altri per ignavia, forse non in abbondanza): non c’è alcuna posizione a riguardo, alcun giudizio, alcun attracco al quale potersi ancorare per accelerare il naturale evolversi degli eventi. Se è destino, sia quel che sia: ne risponderemo! Se invece vi chiedete come ci si senta, allora potete provare a proseguire.

Abbiamo fatto la legna per tener viva la fiamma. L’inverno è stato lungo e finora nessuno aveva avuto freddo. Ma mentre una parte attendeva al tepore giorni salubri e gioiosi senza porsi troppe domande, un’altra guardava quella stessa fiamma dare calore più intenso a certe zone e illuminarne altre. E invece di avvicinarsi e mettere più legna per tutti, si è deciso di andare ad accendere un altro fuoco prendendo legna dallo stesso bosco. Ci si è addormentati. Ed il risveglio è stato gelido…

Da donne si ha talvolta la percezione che dovremmo guardarLo solo dalla finestra: complementari a Carnevale se funzionali, corollarie in tutto il resto; siamo l’altra metà del cielo, che rende rigogliosa la terra, anche quando mostra crepe talmente profonde da far sembrare vana qualsiasi pioggia. Nessuno si è curato, però, di ciò che potessimo provare intimamente; nessuno si è chiesto se abbiamo freddo ora che il fuoco si è quasi spento. Davvero nessuno ce lo ha chiesto. Abbiamo solo potuto e dovuto constatarlo.

In secoli e secoli di cultura popolare, tra tutti i custodi del fuoco, spesso me lo sono chiesta: perché proprio noi dovremmo essere gli ultimi? Forse, adesso, una risposta sovviene…

Carl Jung, nel 1939, spiegava il concetto di inconscio collettivo come quella parte dell’inconscio che è comune a quello di tutti gli esseri umani: stratificata in tre parti, rappresenta la struttura della psiche dell’intera umanità, sviluppatasi nel tempo, e suddivisibile in inferiore, media e superiore. L’inferiore è legata alle radici arcaiche, al passato dell’umanità; la media è dipendente dai sistema valoriale socio-culturale del momento contingente; infine, quella superiore si riferisce alle potenzialità, ai traguardi dell’umanità.

L’inconscio collettivo è la parte ancestrale di noi che media l’eterno dualismo tra due dimensioni, quella della Natura impulsiva e quella della Cultura della Ragione.

Gli animali, ad esempio, sembrano avere un inconscio collettivo: arrivano dove il linguaggio umano non arriva, sono espressione e testimonianza di un legame primitivo strettamente legato alla dimensione dell’anima (anima-le), esseri in grado di farci percepire quel soffio divino che l’uomo sembra non essere più in grado di sentire, subordinato a regole sociali che lui stesso ha creato.

Per secoli, mentre la società tesseva le sue regole e ne imponeva i costrutti, abbiamo conservato, come animali, un raro baluardo di società primordiale, che sapeva gestire il connubio e il conflitto tra bisogno di vivere secondo natura e l’urgenza di conformarsi a una globalizzazione fatta di omologazione, sì, ma anche di comodità. Abbiamo perseguito la volontà di rimanere ancorati a pendii irti e di non scendere a compromessi, mentre la società imponeva strade comode e veloci. Quello che ci viene rimproverato dalla Valle è la non rinuncia ai nostri elementi distintivi, modi di vivere che contemporaneamente provocano ammirazione e dissenso: ammirazione, perché tutti sono consapevoli che ciò sia una rarità; dissenso, perché il non conformarsi dà l’impressione di non voler condividere uno stesso destino, quello dell’inesorabile vittoria di una società omologata rispetto a un’altra che voglia vivere ancora secondo natura. Non ci siamo mai chiesti se la nostra direzione fosse giusta o sbagliata: era ed è sempre stata – come direbbe De Andrè – “in direzione ostinata e contraria”, ma pur sempre la nostra direzione, l’unica che gli avi ci hanno insegnato, la stessa che oggi ci permette di vivere ancora in una specie di bolla atipica, per taluni quasi fastidiosamente felice.

Ciò che rende affascinante il fuoco è la sua indomabilità, il non poterlo imprigionare. Ed è questo che non ci perdonano: di essere indomabili, di non volerci conformare.

Vogliamo rinunciare a tutto questo? Per cosa?

Stiamo soffocando il fuoco per adorare la cenere: preferiamo l’adorazione sociale di stampo egoico alla custodia della vera essenza dell’Io profondo, del nostro sé collettivo?

Scrivevo nel 2013, in riferimento al Bòsol (Äriòsä): “In quel preciso istante, senti che quel cerchio è il mondo ed il mondo è in quel cerchio: è l’energia visibile di quel fulcro ancestrale che ogni giorno, ovunque ci troviamo, ci ricorda prima di tutto chi siamo”.

Da sempre ci percepiamo inconsciamente e in ogni dove come Comunità unica la cui forza vitale è di ispirazione ignota, forse mirabilmente divina, che dà forma al modo in cui siamo, in cui viviamo e che ci distingue da tutto il resto. Come animali, la nostra identità risuona dai tempi del tempi a tal punto che nessuna legge degli uomini, finora, era riuscita a scalfirla. La globalizzazione, paziente, non aspettava che questo: anti-entropica per eccellenza, attendeva solo un abbassamento di vibrazione, una mancata risonanza.

Eravamo conformi e anarchici: conformi e rispettosi dell’altrui sentire, anarchici poiché non abbiamo mai avuto bisogno di regole scritte. Come una tribù. Cittadini di una montagna, abitanti di una terra di mezzo: da secoli ibridi, ossimori viventi.

Abbiamo abbassato la guardia e la società globalizzata del Gatto e la Volpe ci ha mostrato il Paese dei Balocchi, così apparentemente facile e democratico, e indotto a sentire quel bisogno di rendere legge ciò che prima eravamo in grado di governare con buonsenso, di mettere nero su bianco ciò che a priori era regolato dall’onore, secondo principi di anzianità, rispetto e saggezza.

Vivevamo di riti e codici comportamentali decifrati da espressività, movenze e prossemiche solo nostre.

Un popolo che rinuncia ai suoi riti è un popolo che muore del proprio senso di onnipotenza, che non riconosce più il potere divino che da sempre lo ha ispirato.

Sull’inconscio collettivo, su ciò che in noi è insito, Jung scriveva “…e che al mondo effimero della nostra coscienza essi comunicano una vita psichica sconosciuta, appartenente ad un lontano passato; comunicano lo spirito dei nostri ignoti antenati, il loro modo di pensare e di sentire, il loro modo di sperimentare la vita e il mondo, gli uomini e gli dei.”

Siamo gli ultimi custodi del fuoco…