A Castelluzzo.

Sono seduta sul divano. Alla TV, Brasile – Messico. Mentre fuori il Grecale rinfresca la serata e i bambini giocano in giardino, vi scrivo di Castelluzzo, frazione di ponente di San Vito Lo Capo. E’ un borgo relativamente giovane, tagliato nel mezzo dall’arteria principale che porta alla zona del litorale: trafficata, ampia, dritta come un righello, non particolarmente bella e superficialmente senza senso. Superficialmente, termine adeguato. Quando sono arrivata, nonostante la sua semplicità (cosa volete che vi sia di complicato in una strada dritta?), non capivo dove fossi, dove cercare e, soprattutto, cosa cercare per trascorrere due settimane normalmente. Già il termine normale è relativo. Cosa è normale? Qui è normale bere a colazione un buonissimo caffè (il più scarso è migliore di gran lunga del più buono dei nostri) e mangiare un arancino. Cos’è un arancino? Non è quello del McDonald’s. E’ una bomba: riso, prosciutto e mozzarella, panatura e frittura. Al mattino. Diciamo al mattino inoltrato. Qui la vita comincia un po’ più tardi. E’ vero, i ritmi sono diversi. Nel frattempo, Messico e Brasile vanno negli spogliatoi: fine primo tempo. L’arancino – dicevo – al massimo l’ho mangiato solo con il riso e a Mezzogiorno. Il vero palermitano, no. Il palermitano DOC si alza e ‘va’ di caffè e arancino, anche al ragù (minchia! Si può dire ‘minchia’? Ormai è fatta!). Quando sono entrata all’alimentari mi sono trovata sulla porta una signora che stava uscendo e, col volto girato verso la cassiera, si è messa a discutere di ricette. Sulla porta. Non si poteva passare. La porta era di novanta centimetri circa. Non ci passavo. E lei con calma. Ma poi mi sono chiesta dove dovessi andare. Va be’, avevo addosso solo ventiquattro ore di viaggio. Ho atteso. E’ uscita. Sono entrata. No, rifaccio, sono entrata tre minuti dopo. Perché prendersela? Ero lì. In quel momento mi son sentita una siciliana. Non sapevo e non so ‘na mazza di Sicilia, ma avevo atteso senza imprecare come una longobarda e mi ero già conquistata un po’ di sicilianità. Si chiama spirito di adattamento. Quattro giorni dopo sapevo dove fossero tutte le attività commerciali. In fila: posta, alimentari, forneria (non vi dico cosa ci sia, vi dico che mi è bastato uno sguardo e qualche assaggio per capire che una donna che sta qui tre mesi arriva pesando cinquanta chili e se ne va con trenta in più. L’enogastronomia siciliana è una tentazione: pane, pane cunzato, focacce, arancini, crostini, calzoni di ogni tipo, pasticcio genovese, dolci alle mandorle, bomboloni, cannoli con ricotta, etc, etc.. Non continuo perché altrimenti apro il frigo. Sì, ho la scorta. E…il fruttivendolo. Qualche sera fa, arrivo con la macchina davanti al fruttivendolo. Ero bruciata dal sole, piena di sabbia con una sana voglia di frutta fresca per cena. Dove andare, quindi? Dal fruttivendolo. Una stanza anticipata da due scalini. Al di fuori, trecce di aglio appese alla buona, cassette vuote di legno a terra, ammucchiate in maniera disordinata, quattro sedie di plastica di colore diverso davanti all’entrata, di servizio per la famiglia che attende i clienti. Entro e il marito della fruttivendola (che non avevo mai visto) mi saluta. Davanti a me quattro uomini. Mentalmente ho cominciato a scalpitare un po’. Tra me e me dicevo “sono le otto, son cotta, ho fretta, ho solo bisogno di quattro pesche, quattro albicocche e questi manco sanno cosa comprare, guardano la frutta senza riconoscere probabilmente una melanzana da una zucchina. In più ci si mette il marito della fruttivendola che parla ma non serve: almeno la moglie era “spiccia”! Ve bene – penso – ma avevano proprio l’aria di chi dovesse ancora decidere cosa fare per cena, come organizzarsi e cosa comprare. Ai miei occhi erano sonnolenti e mi veniva in bresciano un bel “ma dai, nóm!”. Nel frattempo, mentre questi cercavano di giungere a conclusione, entrava altra gente. Tutti lì, in un tre per quattro. Uno di questi,  vedendo una specie di focaccia davanti al bancone, ha domandato cosa fosse. E il marito della fruttivendola a spiegare che per sapere bisognasse assaggiare. Ha tagliato una mega fetta e l’ha divisa in strisce. Ad ognuno la propria. L’ha offerta a tutti: ai quattro moschettieri, a me, alle signore dietro. Uno dei clienti ha aperto la vetrina frigo e ha preso un litro di birra, ha chiesto un cavatappi e dei bicchieri. L’hanno aperta lì. Versata e dosata per tutti, anche per il marito della fruttivendola. Il fruttivendolo, che dopo quella scena era diventato tale (prima no, per me era solo il marito di), ha preso la birra, l’ha portata a fianco della cassa per non rovesciarla e ha cominciato a raccontare di come si facesse la focaccia; con il pecorino, l’aglio, il pomodoro e le acciughe. E noi tutti, prima frettolosi, ad ascoltare.

In quel momento ho sentito il sapore del ritmo siciliano. ‘a Sicìia!
Ecco, lì mi sono immaginata la stessa scena da Gildo. Ho sorriso e ho chiesto tre pesche e quattro albicocche. Gildo, arrivo. Ma tra un po’.