Il Custode di Mothia

Le saline di Mothia, uno dei luoghi più suggestivi e autentici che abbia mai visto. Così come un tempo, oggi, sono. La struttura del mulino principale si è adeguata all’orda turistica: la sua pancia accoglie oggi, oltre ai meccanismi antichi, un piccolo negozio e una sala riunioni. Al di fuori, semplici zattere sono attraccate per trasportare i visitatori. Intorno, tutto è immutato. L’acqua è bassa e divisa in vasche di grandezza e profondità diverse. A fianco, cumuli di tegole formano muretti ordinati in attesa di coprire, come un mantello, le montagne di sale isolandole dalle impurità delle piogge. Le pale dei mulini si assicureranno a breve una costante aerazione così da asciugare l’oro bianco; dal 1500 ad oggi, stagione dopo stagione, tre raccolte l’anno, tutte nel periodo estivo.
Siamo arrivati in questo luogo perché di fronte alla nostra casetta abitano due anziani che in un pomeriggio d’estate hanno condiviso la loro bella storia.
Negli anni ’60 lui sorvolava per lavoro la Sicilia. Ad un tratto, vide dall’alto questo piccolo borgo (San Vito Lo Capo) e si disse che, prima o poi, ci sarebbe andato. Poco dopo conobbe la moglie, ebbero dei figli e decisero così di trascorrere le loro vacanze in questo sperduto angolo del sud. Sono passati cinquant’anni, ormai sono in pensione e questi due distinti signori romani si sono trasferiti dalla Capitale proprio in quel piccolo borgo visto dall’alto di un bimotore.
La casa è bianca: sul retro (la parte che noi vediamo), la terrazza è ricca di anfore nelle quali sono piantate piccole rose multicolore. Alla loro base, sassi bianchi tondi e levigati, raccolti dalla spiaggia del Monte Cofano, disegnano un giardino curato e ordinato. Non c’è foglia ingiallita che non venga divelta o fiore appassito che non sia sostituito. Lei è ancora una bella signora: capelli corti bianchissimi e vestiti etnici mettono in risalto non solo il fisico, ma anche l’indole, intraprendente e bucolica. Dopo tanto tempo, conoscono molto bene il territorio e hanno voluto condividere con noi alcuni luoghi da non perdere prima di partire. Vorrei raccontarvi delle Saline, ma la calura estiva è intensa. Lo farò, ma non ora. Ora tocca a “Il Custode di Mothia”.
Sono entrata qualche giorno fa in un negozietto di artigianato locale. Ho chiesto se ci fossero delle maschere del posto, ma mi è stato detto che qui non esistono. Ci sono però le marionette. Ecco, dovessi costruirla, costruirei il custode di Mothia.
Farvi capire il personaggio è impresa ardua perché la percezione che ho avuto è stata viziata anche dalla mia predisposizione e dalla mia situazione. Immaginatela così: caldo insistente, quattro adulti, quattro bimbi piccoli, zaini e ingombri vari da trasferire sulla zattera. Dimenticavo i passeggini… Son momenti, come dico sempre! Finalmente approdiamo su quest’isola. Non vi dico il fascino della traversata: saline, mulini a vento, zattere, noi su questa piccola barca dove il timoniere, vista la bassa stagione, ci faceva da Cicerone e ci spiegava che secondo lui, nativo di Marsala (dall’arabo Mars-Allah, il Porto di Dio), quella fosse la parte più bella de “‘a Sicìia”. La sua frase: “È bello anche a Catania, lì c’è ‘La Montagna’ (l’Etna), sembra che ci sia tutto solo lì. Hanno “‘o vulcano, ma il mare ènnnero. E ammmme, il mare nero, nun me piasce”. 
Siamo arrivati a Mothia e abbiamo preso una piccola strada sterrata disegnata a lato da una vegetazione rigogliosa che regalava, a tratti, un po’ d’ombra. Ad un certo punto, sulla sinistra, è spuntata una piccola casa di legno. Dentro, silente, il Custode di Mothia. Un bell’uomo sulla cinquantina, capelli neri e mossi. Occhiali da sole neri. Nella casetta, all’ombra, al coperto. Attendeva i turisti per far pagare una tassa dovuta sia perché l’isola è privata (di Mr. Whitaker), sia perché è in un parco. È lì per staccare biglietti e ricevere la somma dovuta.
La mia amica si è avvicinata per pagare e chiedere informazioni. Lui ha alzato il mento e ha proferito quattro parole stanche. Non so se si sia mossa la lingua. La bocca era aperta ed è uscito un sibilo. Lei mi guarda e io ricambio con uno sguardo rassicurante che in breve consisteva in un “non andremo persi anche senza spiegazione”. Abbiamo pagato. Precedevo la piccola comitiva perciò, per liberare il passaggio, ho cominciato a spingere il passeggino. ll tempo di girarmi per assicurarmi di essere seguita dagli altri, vedo la testa nera, arruffata, con quegli occhiali da sole che, con uno sforzo sovrumano esce dalla finestra della casetta e dice ‘bradiposamente’: “Ma anche i bambini sono con voi?” Gloria ed io, sorridendo, abbiamo annuito come a dire “certo, siamo stati qui davanti fino adesso, non li hai visti? Non c’è nessun altro su quest’isola!” Lui, dovevate vedere lui. Con un cenno ci ha detto: “Dovevano fare il ridotto, ma ormai…. va bene così”.
“Ormai”, ancora ci penso a quell'”ormai”.
Ha ritirato la testa. Si è riseduto. E quello è stato tutto il suo rumore.
Chissà cosa starà facendo, ora, il Custode di Mothia…

A Castelluzzo.

Sono seduta sul divano. Alla TV, Brasile – Messico. Mentre fuori il Grecale rinfresca la serata e i bambini giocano in giardino, vi scrivo di Castelluzzo, frazione di ponente di San Vito Lo Capo. E’ un borgo relativamente giovane, tagliato nel mezzo dall’arteria principale che porta alla zona del litorale: trafficata, ampia, dritta come un righello, non particolarmente bella e superficialmente senza senso. Superficialmente, termine adeguato. Quando sono arrivata, nonostante la sua semplicità (cosa volete che vi sia di complicato in una strada dritta?), non capivo dove fossi, dove cercare e, soprattutto, cosa cercare per trascorrere due settimane normalmente. Già il termine normale è relativo. Cosa è normale? Qui è normale bere a colazione un buonissimo caffè (il più scarso è migliore di gran lunga del più buono dei nostri) e mangiare un arancino. Cos’è un arancino? Non è quello del McDonald’s. E’ una bomba: riso, prosciutto e mozzarella, panatura e frittura. Al mattino. Diciamo al mattino inoltrato. Qui la vita comincia un po’ più tardi. E’ vero, i ritmi sono diversi. Nel frattempo, Messico e Brasile vanno negli spogliatoi: fine primo tempo. L’arancino – dicevo – al massimo l’ho mangiato solo con il riso e a Mezzogiorno. Il vero palermitano, no. Il palermitano DOC si alza e ‘va’ di caffè e arancino, anche al ragù (minchia! Si può dire ‘minchia’? Ormai è fatta!). Quando sono entrata all’alimentari mi sono trovata sulla porta una signora che stava uscendo e, col volto girato verso la cassiera, si è messa a discutere di ricette. Sulla porta. Non si poteva passare. La porta era di novanta centimetri circa. Non ci passavo. E lei con calma. Ma poi mi sono chiesta dove dovessi andare. Va be’, avevo addosso solo ventiquattro ore di viaggio. Ho atteso. E’ uscita. Sono entrata. No, rifaccio, sono entrata tre minuti dopo. Perché prendersela? Ero lì. In quel momento mi son sentita una siciliana. Non sapevo e non so ‘na mazza di Sicilia, ma avevo atteso senza imprecare come una longobarda e mi ero già conquistata un po’ di sicilianità. Si chiama spirito di adattamento. Quattro giorni dopo sapevo dove fossero tutte le attività commerciali. In fila: posta, alimentari, forneria (non vi dico cosa ci sia, vi dico che mi è bastato uno sguardo e qualche assaggio per capire che una donna che sta qui tre mesi arriva pesando cinquanta chili e se ne va con trenta in più. L’enogastronomia siciliana è una tentazione: pane, pane cunzato, focacce, arancini, crostini, calzoni di ogni tipo, pasticcio genovese, dolci alle mandorle, bomboloni, cannoli con ricotta, etc, etc.. Non continuo perché altrimenti apro il frigo. Sì, ho la scorta. E…il fruttivendolo. Qualche sera fa, arrivo con la macchina davanti al fruttivendolo. Ero bruciata dal sole, piena di sabbia con una sana voglia di frutta fresca per cena. Dove andare, quindi? Dal fruttivendolo. Una stanza anticipata da due scalini. Al di fuori, trecce di aglio appese alla buona, cassette vuote di legno a terra, ammucchiate in maniera disordinata, quattro sedie di plastica di colore diverso davanti all’entrata, di servizio per la famiglia che attende i clienti. Entro e il marito della fruttivendola (che non avevo mai visto) mi saluta. Davanti a me quattro uomini. Mentalmente ho cominciato a scalpitare un po’. Tra me e me dicevo “sono le otto, son cotta, ho fretta, ho solo bisogno di quattro pesche, quattro albicocche e questi manco sanno cosa comprare, guardano la frutta senza riconoscere probabilmente una melanzana da una zucchina. In più ci si mette il marito della fruttivendola che parla ma non serve: almeno la moglie era “spiccia”! Ve bene – penso – ma avevano proprio l’aria di chi dovesse ancora decidere cosa fare per cena, come organizzarsi e cosa comprare. Ai miei occhi erano sonnolenti e mi veniva in bresciano un bel “ma dai, nóm!”. Nel frattempo, mentre questi cercavano di giungere a conclusione, entrava altra gente. Tutti lì, in un tre per quattro. Uno di questi,  vedendo una specie di focaccia davanti al bancone, ha domandato cosa fosse. E il marito della fruttivendola a spiegare che per sapere bisognasse assaggiare. Ha tagliato una mega fetta e l’ha divisa in strisce. Ad ognuno la propria. L’ha offerta a tutti: ai quattro moschettieri, a me, alle signore dietro. Uno dei clienti ha aperto la vetrina frigo e ha preso un litro di birra, ha chiesto un cavatappi e dei bicchieri. L’hanno aperta lì. Versata e dosata per tutti, anche per il marito della fruttivendola. Il fruttivendolo, che dopo quella scena era diventato tale (prima no, per me era solo il marito di), ha preso la birra, l’ha portata a fianco della cassa per non rovesciarla e ha cominciato a raccontare di come si facesse la focaccia; con il pecorino, l’aglio, il pomodoro e le acciughe. E noi tutti, prima frettolosi, ad ascoltare.

In quel momento ho sentito il sapore del ritmo siciliano. ‘a Sicìia!
Ecco, lì mi sono immaginata la stessa scena da Gildo. Ho sorriso e ho chiesto tre pesche e quattro albicocche. Gildo, arrivo. Ma tra un po’.

Il cerchio

La regola che fissa la data della Pasqua cristiana fu stabilita nel 325 d. C. dal Concilio di Nicea. La Pasqua cade la domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera (21 marzo). Dalla Pasqua si calcola il mercoledì delle Ceneri e quindi il Carnevale. Dite la verità:  siete rimasti “alla prima luna piena…”? Anche io. :O)

Ogni anno, a Bagolino, la tradizione rivive. Vorrei che questo verbo, “rivivere”, fosse colto nel suo pieno significato. Già, perché dal 1500 ad oggi, quello che potete assaporare nel nostro borgo non è un forzato scimmiottare la vita di un tempo, ma è il mantenere una continuità con il passato; una continuità che non si spezza, sostenuta da un elemento originale, spontaneo che, se falsato, ti fa pagare pegno, ti  smaschera: la trazione orale. Questo evento non si svolge solo a Bagolino, ma anche a Ponte Caffaro, frazione sul Lago d’Idro (tredici chilometri di distanza e una rivalità secolare!).

Se ascoltate attentamente le musiche del Carnevale di Ponte Caffaro (che poi sono le stesse), le sonorità sono diverse e, in alcuni casi, anche il modo di ballare. E vi chiederete come sia possibile. E’ la forza della tradizione orale! Immaginatelo così: nel 1500 c’è un tale. Lo invento, si chiama Tonino. Suona il violino e sa a memoria tutte le ballate. Volete che, scendendo a valle perché si è sposato una caffarese, in 20 anni, senza uno spartito, non abbia cambiato una nota? Beh, colpa delle donne, direte! Forse… Ma forse ci sta anche che un giorno, Tonino, senza una traccia, abbia deciso che una nota gli piacesse di più di quell’altra. Le sonorità cambiano così, spontaneamente, nel tempo. Figuriamoci in più di cinquecento anni (nell’archivio comunale di Bagolino, uno dei più completi d’Italia, si testimonia che il carnevale fosse già presente nel XVI secolo. Si pensa, quindi, sia molto più antico). Il fatto di trovare diversità non è una mancanza, ma un plusvalore, la garanzia dell’autenticità di questo evento.

Cosa attira l’attenzione del visitatore che giunge a Bagolino? Credo, semplicemente, i ballerini,  i màscär, la gastronomia, la bellezza del territorio e… la musica.

Quando “parte” la musica, non importa che tu sia uno spettatore; col pensiero balli anche se non sai ballare. A suon di musica i foresti (già, se non siete del posto vi chiamiamo così) battono il piede per tenere il tempo!  I bagossi? No, i bagossi no – già li vedo – sollevano entrambi i talloni e vanno sulle punte più in alto o più in basso a seconda della cadenza (bagossi, lo so che state ridendo!).

Se osservi la fila dal fondo, noti le ultime figure. Ferme, aspettano il proprio turno. E un libero pensiero sorge spontaneo: “Almeno si riposano un attimo! Sono stanca io che li guardo, figuriamoci loro!” No, no! La coppia rimasta alla fine prende sotto braccio qualcuno tra il pubblico e gli “fa fare una ballata”. Le vesciche ai piedi, prima o poi, passano. Appunto, prima o poi. Ora si balla! Alle vesciche penseranno domani…

C’è un momento che vi vorrei raccontare ed è quello finale. Direte: non ci hai spiegato quando e come ballino e parti dalla fine? Beh, sì, inizio dall’Ariòzä. E come dice la parola è proprio ariosa nel senso che, oltre ad essere allegra, è l’unica che concede molto spazio ai protagonisti; si esegue in cerchio, nella piazza principale del borgo, il lunedì e martedì sera, come ultima danza. E qui vi svelo un aneddoto che mi fa morire dal ridere. Penso che non ci sia anno in cui non ci “abbiamo fatto un ricamo”. Ad ogni carnevale, il capo ballerino decide l’itinerario (il capo è il capo e il nostro è insostituibile!) Quasi ogni volta viene modificato (magari solo in parte) e – si discute – se sia migliore del precedente. Tutto perché? Per fare l’ Ariòzä ad un orario decente. Puntualmente il gruppo è in ritardo e puntualmente ce la ridiamo (e non per colpa del capo!). Ti vengono pure a dire che erano in anticipo: e noi glielo lasciamo credere! Tanto lo sappiamo che, se mangeremo, non sarà che verso le ventidue e che faremo di tutto per gustarci l’ultima fetta di salame appena prima che il campanone suoni l’inizio della Quaresima (e con tutto quello che abbiamo mangiato  e bevuto – qualcuno direbbe – se non ci riuscissimo, sarebbe meglio!). Abbiamo atteso un anno, un lungo anno prima di rivedere l’ Ariòzä: che ci costa un’ora in più o in meno?

La Piazza Marconi è luogo strano: non sembra nemmeno una piazza, forse perché storicamente non lo è mai stata. Ma quella sera, la sera del martedì di carnevale, l’agitazione si sente nell’aria e le case, come l’anima di uno strumento,  sembrano contenere e amplificare tutta l’emozione. Si girovaga un po’. Si pensa dove attendere i ballerini, cercando la postazione ideale, anche quella più impensata. In effetti, impensato lo era il tetto della vecchia cabina telefonica qualche anno fa, lo è la copertura del distributore ora o le “scàndole”(tegole di legno) dei carri costruiti per l’occasione. E, mentre aspetti, ti fanno compagnia  il freddo ed il buio, quel buio che le luci non riescono a vincere, puntate perennemente verso il basso, che ti ricordano che  vivi in questo stupendo borgo medievale, dove le ombre non sono meno importanti della luce.

Finalmente dalla strettoia spuntano i primi ballerini. La gente li saluta e dà loro coraggio: “I-è lé ültime sgoladüre (sono gli ultimi sforzi)!”.

Pian piano si mettono in cerchio. Ora, vi porto dentro a quel “cerchio”, così è come se foste tutti in prima fila. Non sentitevi estranei: balleranno anche per voi. La calca delle persone preme da dietro. Vi indico ora una ragazza. Cerca di riconoscere il suo amore dal disegno del cappello. L’oro di famiglia vi è stato sapientemente puntato e cucito. In particolare cerca un anello, il suo. Lo riconoscerebbe tra mille. Non ha scelto la trama; non è ancora sposata. Il suo Ballerino è mascherato, perciò la vista è limitata. Lei lo sa e lo chiama: “Bälärì, Bälärì!” I ballerini non possono essere chiamati per nome. Non sente. Allora lei lo chiama più forte. Lo chiama, perché lì, in quel momento lì, anche se l’ha visto dieci minuti prima, vale di più. Anche l’Amore, in  questo istante, vale di più. “Bälärì, Bälärì!” Ecco, lui si gira e la vede. La mano è ricoperta da un guanto bianco; la avvicina alla maschera e le manda un bacio. Lei alza il braccio ed è come se gli dicesse: l’ho preso! E sorride. Lui prende posto. Lei? Guardate i suoi occhi: lo segue con lo sguardo. Non lo distoglierà mai, nemmeno per un attimo.

E nella grande confusione di luci e colori, ecco, improvvisamente, un suono. Non un suono qualunque, ma il suono del contrabbasso: viscerale e profondo. Un richiamo che ci ha accompagnato per tutto il carnevale. Sapete, la notte, quando appoggiamo l’orecchio al cuscino, quando tutto è finito,  lo sentiamo ancora… “re, la, re, re – sol, la, re”. Questo è l’istante in cui realizzi che un altro carnevale è passato, in cui sei certo che ne è valsa la pena aspettare e, soprattutto, che non c’è altro luogo in cui vorresti stare, perché quell’attimo basta all’eternità.

Non scriverò della danza. Vi invito a vederla. Posso dirvi, però, che due sono i momenti che amo: il primo, è infinitamente piccolo. E’ il vuoto, il silenzio, che precede la prima battuta dei violini. E’ il tempo di un respiro, talmente profondo che credi che l’universo lo stia prendendo con te. I ballerini alzano le braccia, si prendono per mano, le stringono fino a tremare. In un gesto, si crea il sigillo che chiude quel cerchio. In quel preciso istante, senti che quel cerchio è il mondo ed il mondo è in quel cerchio: è l’energia visibile di quel fulcro ancestrale che ogni giorno, ovunque ci troviamo, ci ricorda prima di tutto chi siamo.

Il secondo momento è l’abbraccio, quell’abbraccio che vedi nascere spontaneo tra i ballerini alla fine, dopo l’ultimo suono del contrabbasso. E’ il segno che tutto è come è sempre stato e in cui senti che anche chi non c’è più non è voluto mancare.

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Foto di A. Nabacino, Album di Flickr di Monte Maniva http://www.flickr.com/photos/maniva/6755644771/in/set-72157625967167846

 

In un gesto

Pubblicato inizialmente sul Blog TerraUomoCielo da Lucia Bellini, ripropongo questo post che spero possa essere il primo passo di questo lungo viaggio.

In un gesto

Conosco Claudia da un paio d’anni, solo virtualmente. Non ci siamo mai incontrate di persona, ma abbiamo molto in comune. Siamo molto legate al nostro territorio e alle nostre rispettive vallate, divise da passi alpini e splendidi panorami. Vi avevo già parlato del carnevale di Bagolino l’anno scorso, ma volevo sentire la voce di chi lo vive da protagonista, di qualcuno che lo respira da sempre. Ecco il racconto di Claudia.

Lucia mi ha chiesto di scrivere un post sul Carnevale di Bagolino: uno dei carnevali più antichi di tutto l’arco alpino.Potrei farvi una descrizione dei costumi, spiegarvi come si svolga ma, alla fine, non servirebbe a nulla, non aggiungerebbe nulla.

Cosa c’è nel web che una persona non possa trovare con un semplice click? Quanto ci impiega un utente ad andare su Wikipedia o su un qualsiasi sito ufficiale, digitare qualche parola chiave e conoscere l’abc di questo evento? Nulla. Appunto, giusto un click. Non mi resta che togliere qualsiasi inibizione letteraria o pretesa di fare un articolo: risulterebbe lezioso e scolastico. Non è questo il mio scopo. Sì, perché vorrei portarvici dentro a questo carnevale, vorrei che poteste sentire,  intimamente, anche solo per un attimo, quel nucleo ancestrale, quel battito profondo che pulsa; quel richiamo che, improvvisamente, senza controllo, spontaneamente, ci riporta indietro, oggi come allora, al 1500.

A volte sembra che il tempo non sia passato; altre, guardi il borgo: l’architettura si è in parte modificata,  eppure – vi assicuro – in quei giorni, anche le antiche case si esprimono. Parlano. Passeggi tra i vicoli, ed i muri, grandi e possenti, storti come un ramo di nocciolo, si manifestano e sembrano dirti:  tu sei tutto ciò, questo luogo è parte di te e tu ne sei lo specchio. Lo sei sempre stato, anche quando ancora non esistevi. Rifletti e capisci che sei l’essenza umana dei monti e dei prati, che dentro di te, c’è un fulcro che ti ricorda chi sei. Sempre, ovunque.  Sei il profumo del fieno appena tagliato, sei la fatica del contadino, sei figlio delle donne che arrivavano esauste a casa, dopo aver lavorato la terra dall’alba al tramonto, talora gravide, fino anche al giorno prima del parto.

bagolino

http://www.habitarinstaterra.it/

Le donne del mio paese; le stesse che portavano il concime sulle ceste e che, per due giorni erano chiamate a lavorare fuori casa. Le vedete? No?  Allora vi ci porto io. Immaginatela così: una ragazza in età da marito. E’ in mezzo al prato. Lavora e canta una canzone per il suo amato e sembra dirgli: mi senti? Non ha profumo intorno a lei; trasporta letame. Eppure profuma di bellezza, di genuinità. Ha un vestito scuro, tessuto a telaio dalla famiglia, un grembiule che le possa mantenere il vestito più a lungo, un foulard sulle spalle per proteggersi dall’aria ed uno sul capo. E canta. Canta in dialetto e dice al suo amato: sono qui, per due giorni lavoro qui. La giornata finisce, il sole tramonta e si cena. Un piatto povero ma dignitoso. Un sorso di latte, bevuto in una ciotola di legno e un pezzo di polenta. Il cucchiaio, nel centro, ha un buco. Il latte deve scendere, non può finire subito. Non ce n’è altro.

Scende la notte. Stanchi, sono tutti nel fienile. Si raccontano storie, si discute di quello che si dovrà fare l’indomani, si accudiscono i più piccini e, improvvisamente, un rumore di zoccoli… Eh sì, un rumore deciso di zoccoli. Non ci si può sbagliare. Qui  i chiodi sono messi sotto la suola; le scarpe così si consumano meno. Tutto è usato con parsimonia. Nulla è lasciato al caso. Dalla cascina vicina ecco che arrivano degli uomini dal volto coperto. Mascherano il timbro e la postura, ma il linguaggio è del posto. Vengono accolti nel fienile. Il fuoco è acceso. Si ride, si scherza, si palpa (e qui –  badate – la palpàdä non è un gesto volgare, ma un antico rituale fatto tra i commilitoni romani; significa prosperità nella tua casa) e…ci si guarda. Lei, quella lei che cantava è lì, vicino al fuoco. Come comunicare con lei se non oscurando il proprio volto e dire ciò che si prova se non in versi, se non scherzando, con autoironia? E’ dialetto, è poesia. Anche questo è per me il vero volto del Carnevale.

Ancora oggi le donne, sotto l’abito tradizionale, portano calze di colore diverso: bianche se fanciulle, rosse se nubili e spose, viola se vedove. Sapete, io me la vedo lei che, in mezzo al prato, cantando, avrà fatto intravedere il colore della calza, spostando uno zoccolo o facendo finta di avere un po’ d’erba che le desse fastidio.  Nulla è perso di quel tempo. Oggi come allora, se uno è consapevole di ciò che indossa, può risentire i canti, captare i profumi e assumere uno stato d’animo anche solo nel momento in cui, alzando le braccia verso l’alto, si prepara per indossare il vestito. Alzo le braccia, infilo la èciä (questo è il nome dell’abito femminile) e sento questo: orgoglio per la mia Terra. Alzo le braccia e ciò che indosso è un abito da sposa, tessuto più di cent’anni fa. Chiudo i gancini, dondolo a destra e a sinistra con i fianchi e penso: chissà quanto lavoro avrà visto quest’abito, rinforzato sul busto, rattoppato per non essere cambiato eppur così in buono stato! Chissà se la donna che l’ha cucito avrà cantato qualche canzone e se, al tepore di un fuoco, avrà scambiato i primi sguardi d’amore.

bagolino vecchia

E così, in un gesto, comprendo  perché le donne della mia famiglia, di ogni famiglia di questo borgo, da secoli, di generazione in generazione, di madre in figlia, abbiano la smania di conservare gli abiti. L’odore di naftalina, quando li tiri fuori dal baule, ti dà quasi un sospiro di sollievo. L’odore si esala, si sa. Le tarme, no.

Queste righe descrivono solo una parte del carnevale, la meno conosciuta, la meno valorizzata: espressione di una vita di fatica, di rinunce, di attaccamento alla terra. Una vita semplice, nel suo significato più vero, più puro. E forse, ora, se verrete a Bagolino e incontrerete i màscär, vi torneranno alla mente queste poche parole e, pensando a quella fanciulla, riuscirete anche a vedere che, dietro ad una maschera e ad un gesto inconsueto o parodiato, c’è molto di più: c’è il senso di popolo.

Giunti a questo punto,  dovrei raccontarvi la seconda parte del Carnevale di Bagolino: i Ballerini. Facciamo così: siccome è “lunga” e non voglio tediarvi, bevetevi un buon bicchiere di vino consigliato da Lucia.

Nel frattempo, continuo a scrivere. Aspettatemi…                              Claudia Fusi