Appunti veloci di viaggio – Venezia al tempo del Covid (Estate 2020)

Una volta una signora mi disse che per stare bene avrei dovuto scrivere centocinquanta desideri e mettere una crocetta quando se ne fosse avverato uno.
Mi ero messa a ridere.
Alla fine non l’ho fatto davvero?
Venezia ha un effetto strano se si isola (sempre che si riesca) l’aspetto turistico.
Palazzetto Pisani e Palazzetto Foscolo sono palazzi antichi, che meriterebbero venissero conservati meglio. Potrei scrivere per ore. Ma non ora.
Il profumo è inconfondibile…
Cammini tra le calli, passi nei sottoporteghi e, tra un bacaro e l’altro, vedi la casa di Casanova, le carceri, i ponti, la casa di Marco Polo, il ghetto ebraico, il mercato, il Fondaco dei Turchi e dei Tedeschi, chiese, basiliche, chiostri. Tele del Tintoretto a due passi dal Conservatorio. Ogni angolo è un gioiello.
Lo Squero di San Trovaso… da commozione. Lo guardo e… vedo “él fœsenàl”. Come a Bagolino. Identico. Capisco tante cose. A San Marco c’è un Gasparo da Salò, un contrabbasso a tre corde (guarda caso). In alto, vicino al tetto della Basilica. Nulla è un caso, qui e lassù. Lontano dalle acque.
Cosa sia rimasto della Venezia di un tempo non lo sapevo finché ho esaudito il mio secondo desiderio: un giro in gondola. Sembra un’altra città. Lo dice pure il gondoliere che ai turisti è abituato e la racconterà soave. Ma è un’altra città davvero.
Il terzo desiderio sarebbe di assistere al concerto di Capodanno al teatro La Fenice. Ma non credo sarà mai possibile. Così, nel frattempo, ho vistato pure quella. Mi è mancato il fiato. È una cosa meravigliosa e siamo degli esseri privilegiati.
Sono stata tantissime volte a Venezia, ma tante veramente. Credo di aver cominciato solo ora a capire…
Nella libreria ci saranno due o tre libri in italiano e sono di cucina araba. Only English. Alla reception al check-in? Only English. La signorina si scusa ma è appena arrivata e sta imparando. Il personale è quasi tutto straniero.
Si capisce tanto anche da qui e ci sarebbe da ridire.
Però poi entri a Palazzo Ducale e noti lanterne gigantesche e meravigliose, in stile moresco, donate al Doge. Terra di venti e di incontro. Si sono, ci siamo mischiati già al tempo. Mercanti…

L’estremo sé dell’essere

L’estremo credo sia una dimensione interna, personale, di duplice natura: la prima, la costruzione del progetto, che ha come motore l’illusione egocentrica di trovare qualcosa di utile per sé e per dimostrare qualcosa agli altri; la seconda, che si svela ad alcuni solo con l’esperienza effettiva, quando cioè ci si trova nel mezzo, quel momento che ti mostra il vero motivo della partenza: l’inquietudine di fondo rivela il bisogno estremo di verità della propria esistenza, non più di natura sociale come la prima, ma di tipo ancestrale, animale (da anima).
La vera utilità della scoperta è la scoperta dell’inutilità delle cose: ogni passo ti dice chi sei nel tuo rapporto ancestrale con l’universo; non conta il giudizio sociale ma il sentire te stesso in armonia con il creato (spesso, solo dopo che con esso ci hai parlato e ti sei pure incazzato). E forse è in quel momento che il giudizio narciso e consapevole che si ha di se stessi, tenuto a bada ma motore nella prima fase, viene perdonato nella seconda, dove la natura ti insegna e ti porta ad accettare la pasta di cui sei fatto.
Si parte giudicandosi e non ammettendo il giudizio, si arriva mettendo fisiologicamente da parte il giudizio degli altri e il proprio, proprio perché le categorie del giudizio non sono in grado di spiegare ciò che accade nel profondo.
Viviamo un tempo dove i più sono trainati solo dalla prima fase: fanno l’estremo ma non diventano l’estremo che è in loro. La socialità prevale sull’esistenza. Ce n’è una piccola parte, tuttavia, che comprende le due fasi e, per passare dall’una all’altra, ci lascia nel mezzo tutta la sofferenza di cui è capace (e anche oltre), un dolore che passa e si auto-cura attraverso l’accettazione; è quella piccolissima e unica parte che non dovrebbe preoccuparsi (occuparsi prima) di come viene percepita, ma darsi il tempo di poter essere ciò che semplicemente è.
Ognuno vive il proprio estremo.
Ognuno sa cosa sarebbe potuto essere e non è stato.
E, se è stato, sa di cosa stia parlando.
“È stremato, al limite, forse disgustato dall’umiliazione di ritornare in Inghilterra senza successo…”.
Partito asceta, non tornato perché rimasto alla prima fase?
La seconda fase non è per tutti.
Un folle sull’Everest, la storia di Maurice Wilson - Montagna.TV
MONTAGNA.TV
Un folle sull’Everest, la storia di Maurice Wilson – Montagna.TV
Maurice Wilson, reduce della p

“…like a chewing gum of the trees”

Sono tornata a casa solo da poche ore: il mio tempo sul Cammino è finito poco prima della Verna. Potrò completare il mio viaggio tra un po’ di mesi.
Mi sembra di aver vissuto in un altro tempo o, forse, questo è semplicemente un altro tempo della mia vita.
Ho iniziato questo percorso con l’arroganza e l’ignoranza, dicendomi che sarebbe stato introspettivo e che l’avrei fatto per ricercare me stessa, “per me, perché sono anche altro da ciò che sono nella vita vita di ogni giorno”, credendo che quell’altra parte sarebbe vissuta o si sarebbe a me mostrata solo ricercando artificiosamente percorsi alternativi e selvaggi.
Stavo aspettando forse di vivere un film e non mi aspettavo, davvero, semplicemente di vivere.
L’accoglienza che ho avuto, che abbiamo avuto sul nostro cammino, la gente del posto, la cura verso l’altro, il senso della comunità e della comunione, la condivisione di un qualcosa di diverso dal semplice lavoro di accoglienza di un ospite… tutto questo ha cambiato, senza che me ne accorgessi, la dimensione della mia vita, la mia percezione delle cose, delle persone. Ho scoperto il valore della lentezza.
Eppure sono abituata a viaggiare, a camminare…
Il mio viaggio è iniziato a Dovadola. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, prendendo coscienza molto lentamente di ciò che stessi vivendo, mi sono resa conto che ogni pellegrino incontrato stesse contribuendo con un proprio colore a dipingere questo disegno di cui anche io facevo parte. Un dipinto che non avevo previsto di realizzare.
Alla Capannina il dipinto era già bellissimo: c’erano profumi, colori, animali e… una signora dolcissima che, con un’ottima cena posata su una tovaglia a quadretti, ci ha riuniti per la prima volta tutti quanti insieme. Ci siamo conosciuti così, passandoci del cibo, chiedendo cosa fosse quella pietanza, bevendo un buon bicchiere di vino, tra sorrisi e imbarazzi.
Abbiamo condiviso 4 giorni in simbiosi, annunciandoci nei rifugi con una telefonata comune, andando a fare la spesa insieme nel pomeriggio, visitando i paesini con i nostri piedi stanchi in calzari improbabili ma comodi. Eravamo leggeri, come se fossimo in un altro tempo: non pretenzioso, non globalizzato. Semplicemente in armonia. Non obbligati a camminare insieme, rispettosi del bisogno di un “intimo sentire”. Ci siamo incontrati più volte nei boschi e salutati con lo stupore di chi si ritrova dopo un lungo viaggio.
A Corniolo la Signora Nelly e il cuoco ci hanno preparato una zuppa calda che sapeva di amore tanto ‘era andata sul fuoco’: “La preparo sempre quando arrivano i pellegrini, perché so che siete stanchi”, ci ha detto con un tipico accento romagnolo. Una mamma a Corniolo. Alle 6 del mattino ci ha fatto il caffè e, quando le abbiamo chiesto cosa ci facesse alzata a quell’ora, ci ha risposto che fosse pronta per fare i tortellini. La ricetta dei tortellini e un buon caffè. Camminavo verso la chiesa di Sant’Agostino e avevo ancora il sorriso nel cuore a pensare alla gente che a Mezzodì avrebbe avuto la fortuna di mangiare quei tortellini!

E’ da ieri che ho le lacrime agli occhi, non so nemmeno io se di gioia o di tristezza.
Non sono andata per cercare Dio, sono andata per me stessa (sempre questo ego smisurato!), per ritrovarmi.
E ho trovato Dio. Proprio io che, in fondo, non lo cercavo… l’ho trovato nei boschi e nelle persone che mi hanno donato il loro tempo, che mi hanno raccontato la loro vita.
Mi chiedono come sia stata questa esperienza ma io non la so spiegare. Forse a parole scrivevo di aspettarmi tante cose, ma dentro ero vuota. Ora, dentro, è un tumulto di sensazioni, come se il mio viaggio fosse appena iniziato, come se fossi una persona nuova.

La signora Nelly mi ha detto che circa 10 anni fa Giordano passò dai vari paesini per capire la disponibilità ad accogliere dei pellegrini sul Cammino. Non so se le persone le mandi Dio, ma sicuramente Dio ha un progetto per alcune di queste… San Francesco è in questi luoghi.
La presenza dell’infinito, della pace, dell’amore universale si respira.

Non posso ancora dire se questo Cammino sia per tutti.
Ero certa fosse per me solo che, ora che l’ho iniziato, quella che pensava di essere adatta non sono più io.
Io sono un’altra persona, sono sempre in viaggio, ancora là, tra il suono degli alberi, con Gloria, Norbert, Miriam, Daniela e Gualtiero…

“Non perderti nelle lusinghe del mondo”

P.S.: grazie, Giordano!

Buon viaggio, Don Firmo!

Don FirmoOggi se n’è andato Don Firmo Gandossi, parroco di Bagolino dal 1980 al 1992.

Con lui ho girato, dalla prima elementare in su, tutte le nostre montagne.

Da lui ho imparato che bisogna stare al passo e non aver fretta nella salita; ho imparato a guardare i piedi di chi sale, ad alzare lo sguardo ma non il capo; che non c’è cosa più bella che mangiare ammirando il panorama solo quando chi ha fatto fatica con te è lì, vicino a te; che la montagna ti fa contare le parole e le rende meno severe avvicinando le persone; che la voglia di tornare a casa è la chiave per gustarsi un altro percorso; che anche se uno si fa male, sulle spalle, fatica o no, c’è sempre posto; che se in montagna piove, ci si deve affrettare, ma a volte non ti resta che prenderti una “slavacciata”. 

Don Firmo, la sua severità di una dolcezza disarmante. Don Firmo, l’educatore. Chi ha la grande fortuna di credere lo penserà già nella casa del Padre.
Ovunque tu sia, buon viaggio!

Sul Carnevale di Bagolino

I nostri figli non parlano bagosso correttamente e correntemente.
Non siamo più in grado di andare in maschera come una volta.
Il carnevale diviene così come la società dal quale proviene. Ne è lo specchio. E’ stato così nei secoli fino a quando non ha incontrato l’era della globalizzazione.
Non si può fare un carnevale che è il rivivere l’antico mondo contadino, se di quel mondo non conosciamo quasi più nulla e non ne sentiamo l’importanza perché il consumismo ci sta facendo credere che il ritmo naturale delle cose (sul quale il mondo contadino ha fondato la propria esistenza) non sia più essenziale.
O ritorniamo alle origini (e non credo sia possibile) o accettiamo il lento divenire delle cose. Accettare significa vedere un cambiamento e prenderne atto. Il cambiamento si concretizzerà, ad esempio, in giovani, pochi, che andranno in maschera parlando un bagosso molto approssimativo, andando a bar e non a cucine (non solo perché non saranno in grado di tenere un discorso o di prendere in giro il padrone di casa riguardo i suoi difetti o scimmiottando eventi combinati durante l’anno, ma anche perché molte persone non apriranno loro la porta: per paura, perché la vita è diventata una corsa e sembra non si abbia più il tempo, la voglia di fare queste cose; forse non se ne capisce più il senso o, quantomeno, lo si mette in dubbio).
Il senso del carnevale si sta perdendo insieme al senso della vita in questa società che ha comodità e benessere, che non è più legata ai ritmi della natura, che raramente conosce fatica fisica.
E’ una vita che probabilmente è più facile e dove il diritto si è evoluto, ma che non riesce più ad accogliere un certo tipo di esistenza, dove donne e uomini avevano precisi compiti e doveri, nonché definiti ruoli.
La penso così: scomoda (forse come al solito), ma questo è quanto.
Se così non fosse e io mi sbaglio, dovremmo ritornare almeno a 30/40 anni fa (limite minimo), con i genitori di un tempo, con la società di un tempo (e le scomodità di un tempo) creata sulla base di una determinata tradizione. Quel “un tempo”, scomodo e legato indissolubilmente alla natura, ha creato tutto ciò che abbiamo visto e riprodotto fino a poco fa.
Prima lo ammettiamo, prima ce ne faremo una ragione.

Chi è legato alla terra e agli animali per lavoro resiste e rallenta il processo (anche per gli altri): parla bagosso perfettamente, conosce la natura e i suoi principi. Gli altri?

Il carnevale sta morendo perché la gente si è allontanata dalla natura e non ne riconosce più il suo ritmo. Lo sente, come richiamo, ma non è sufficiente a un ritorno alla terra.

 

Antonio Stagnoli

Oggi se ne è andato uno dei più grandi poeti dell’arte italiana, il M°Antonio Stagnoli.  La Chiesa di San Giorgio, gioiello che sovrasta il nostro borgo medievale e cornice degna di tanta bellezza, ne ha accolto le spoglie. Poco prima del Canone di Pachelbel ha preso parola l’ex sindaco di Milano, Borghini. Con timore ho creduto che quell’insolito connubio di semplicità e perfezione lasciatoci in eredità da Stagnoli venisse in qualche modo falsato da parole troppo pensate o artificiose. Un timore smentito. Profondo il discorso e intenso il ricordo attraverso la descrizione di uno dei suoi grandi capolavori: un vecchio riscaldato da un mantello e un bambino che spunta fuori e si protegge dal freddo severo dell’inverno, quasi a simboleggiare la durezza della vita che non risparmia nessuno, nemmeno i più piccini.

Il suo tortuoso cammino ha portato noi a credere di doverlo proteggere dalle insidie terrene quando, invece, siamo e saremo noi ad essere protetti per sempre dalla magnificenza delle sue opere.
Oggi, giorno dell’addio, i giovani presenti al funerale si contavano sulle dita di una mano.
Nessun discorso delle autorità a omaggiare uno dei più grandi protagonisti dell’intero patrimonio artistico italiano: non un saluto, non una parola, non un grazie a nome di tutta la Comunità bagossa.
Sarebbe bastato. Molti gli articoli in merito in questi giorni e gli speciali non tarderanno ad arrivare. Non credo diranno questo.

Quando forse la frenesia avrà preso il sopravvento e l’apatia avrà cancellato qualsiasi motivo per il quale essere orgogliosi di questa terra, spero che il rivedere quel bambino ci ricorderà che un tempo c’era un grande uomo di nome Antonio Stagnoli che l’ha degnamente e orgogliosamente rappresentata.

 

Il Custode di Mothia

Le saline di Mothia, uno dei luoghi più suggestivi e autentici che abbia mai visto. Così come un tempo, oggi, sono. La struttura del mulino principale si è adeguata all’orda turistica: la sua pancia accoglie oggi, oltre ai meccanismi antichi, un piccolo negozio e una sala riunioni. Al di fuori, semplici zattere sono attraccate per trasportare i visitatori. Intorno, tutto è immutato. L’acqua è bassa e divisa in vasche di grandezza e profondità diverse. A fianco, cumuli di tegole formano muretti ordinati in attesa di coprire, come un mantello, le montagne di sale isolandole dalle impurità delle piogge. Le pale dei mulini si assicureranno a breve una costante aerazione così da asciugare l’oro bianco; dal 1500 ad oggi, stagione dopo stagione, tre raccolte l’anno, tutte nel periodo estivo.
Siamo arrivati in questo luogo perché di fronte alla nostra casetta abitano due anziani che in un pomeriggio d’estate hanno condiviso la loro bella storia.
Negli anni ’60 lui sorvolava per lavoro la Sicilia. Ad un tratto, vide dall’alto questo piccolo borgo (San Vito Lo Capo) e si disse che, prima o poi, ci sarebbe andato. Poco dopo conobbe la moglie, ebbero dei figli e decisero così di trascorrere le loro vacanze in questo sperduto angolo del sud. Sono passati cinquant’anni, ormai sono in pensione e questi due distinti signori romani si sono trasferiti dalla Capitale proprio in quel piccolo borgo visto dall’alto di un bimotore.
La casa è bianca: sul retro (la parte che noi vediamo), la terrazza è ricca di anfore nelle quali sono piantate piccole rose multicolore. Alla loro base, sassi bianchi tondi e levigati, raccolti dalla spiaggia del Monte Cofano, disegnano un giardino curato e ordinato. Non c’è foglia ingiallita che non venga divelta o fiore appassito che non sia sostituito. Lei è ancora una bella signora: capelli corti bianchissimi e vestiti etnici mettono in risalto non solo il fisico, ma anche l’indole, intraprendente e bucolica. Dopo tanto tempo, conoscono molto bene il territorio e hanno voluto condividere con noi alcuni luoghi da non perdere prima di partire. Vorrei raccontarvi delle Saline, ma la calura estiva è intensa. Lo farò, ma non ora. Ora tocca a “Il Custode di Mothia”.
Sono entrata qualche giorno fa in un negozietto di artigianato locale. Ho chiesto se ci fossero delle maschere del posto, ma mi è stato detto che qui non esistono. Ci sono però le marionette. Ecco, dovessi costruirla, costruirei il custode di Mothia.
Farvi capire il personaggio è impresa ardua perché la percezione che ho avuto è stata viziata anche dalla mia predisposizione e dalla mia situazione. Immaginatela così: caldo insistente, quattro adulti, quattro bimbi piccoli, zaini e ingombri vari da trasferire sulla zattera. Dimenticavo i passeggini… Son momenti, come dico sempre! Finalmente approdiamo su quest’isola. Non vi dico il fascino della traversata: saline, mulini a vento, zattere, noi su questa piccola barca dove il timoniere, vista la bassa stagione, ci faceva da Cicerone e ci spiegava che secondo lui, nativo di Marsala (dall’arabo Mars-Allah, il Porto di Dio), quella fosse la parte più bella de “‘a Sicìia”. La sua frase: “È bello anche a Catania, lì c’è ‘La Montagna’ (l’Etna), sembra che ci sia tutto solo lì. Hanno “‘o vulcano, ma il mare ènnnero. E ammmme, il mare nero, nun me piasce”. 
Siamo arrivati a Mothia e abbiamo preso una piccola strada sterrata disegnata a lato da una vegetazione rigogliosa che regalava, a tratti, un po’ d’ombra. Ad un certo punto, sulla sinistra, è spuntata una piccola casa di legno. Dentro, silente, il Custode di Mothia. Un bell’uomo sulla cinquantina, capelli neri e mossi. Occhiali da sole neri. Nella casetta, all’ombra, al coperto. Attendeva i turisti per far pagare una tassa dovuta sia perché l’isola è privata (di Mr. Whitaker), sia perché è in un parco. È lì per staccare biglietti e ricevere la somma dovuta.
La mia amica si è avvicinata per pagare e chiedere informazioni. Lui ha alzato il mento e ha proferito quattro parole stanche. Non so se si sia mossa la lingua. La bocca era aperta ed è uscito un sibilo. Lei mi guarda e io ricambio con uno sguardo rassicurante che in breve consisteva in un “non andremo persi anche senza spiegazione”. Abbiamo pagato. Precedevo la piccola comitiva perciò, per liberare il passaggio, ho cominciato a spingere il passeggino. ll tempo di girarmi per assicurarmi di essere seguita dagli altri, vedo la testa nera, arruffata, con quegli occhiali da sole che, con uno sforzo sovrumano esce dalla finestra della casetta e dice ‘bradiposamente’: “Ma anche i bambini sono con voi?” Gloria ed io, sorridendo, abbiamo annuito come a dire “certo, siamo stati qui davanti fino adesso, non li hai visti? Non c’è nessun altro su quest’isola!” Lui, dovevate vedere lui. Con un cenno ci ha detto: “Dovevano fare il ridotto, ma ormai…. va bene così”.
“Ormai”, ancora ci penso a quell'”ormai”.
Ha ritirato la testa. Si è riseduto. E quello è stato tutto il suo rumore.
Chissà cosa starà facendo, ora, il Custode di Mothia…

A Castelluzzo.

Sono seduta sul divano. Alla TV, Brasile – Messico. Mentre fuori il Grecale rinfresca la serata e i bambini giocano in giardino, vi scrivo di Castelluzzo, frazione di ponente di San Vito Lo Capo. E’ un borgo relativamente giovane, tagliato nel mezzo dall’arteria principale che porta alla zona del litorale: trafficata, ampia, dritta come un righello, non particolarmente bella e superficialmente senza senso. Superficialmente, termine adeguato. Quando sono arrivata, nonostante la sua semplicità (cosa volete che vi sia di complicato in una strada dritta?), non capivo dove fossi, dove cercare e, soprattutto, cosa cercare per trascorrere due settimane normalmente. Già il termine normale è relativo. Cosa è normale? Qui è normale bere a colazione un buonissimo caffè (il più scarso è migliore di gran lunga del più buono dei nostri) e mangiare un arancino. Cos’è un arancino? Non è quello del McDonald’s. E’ una bomba: riso, prosciutto e mozzarella, panatura e frittura. Al mattino. Diciamo al mattino inoltrato. Qui la vita comincia un po’ più tardi. E’ vero, i ritmi sono diversi. Nel frattempo, Messico e Brasile vanno negli spogliatoi: fine primo tempo. L’arancino – dicevo – al massimo l’ho mangiato solo con il riso e a Mezzogiorno. Il vero palermitano, no. Il palermitano DOC si alza e ‘va’ di caffè e arancino, anche al ragù (minchia! Si può dire ‘minchia’? Ormai è fatta!). Quando sono entrata all’alimentari mi sono trovata sulla porta una signora che stava uscendo e, col volto girato verso la cassiera, si è messa a discutere di ricette. Sulla porta. Non si poteva passare. La porta era di novanta centimetri circa. Non ci passavo. E lei con calma. Ma poi mi sono chiesta dove dovessi andare. Va be’, avevo addosso solo ventiquattro ore di viaggio. Ho atteso. E’ uscita. Sono entrata. No, rifaccio, sono entrata tre minuti dopo. Perché prendersela? Ero lì. In quel momento mi son sentita una siciliana. Non sapevo e non so ‘na mazza di Sicilia, ma avevo atteso senza imprecare come una longobarda e mi ero già conquistata un po’ di sicilianità. Si chiama spirito di adattamento. Quattro giorni dopo sapevo dove fossero tutte le attività commerciali. In fila: posta, alimentari, forneria (non vi dico cosa ci sia, vi dico che mi è bastato uno sguardo e qualche assaggio per capire che una donna che sta qui tre mesi arriva pesando cinquanta chili e se ne va con trenta in più. L’enogastronomia siciliana è una tentazione: pane, pane cunzato, focacce, arancini, crostini, calzoni di ogni tipo, pasticcio genovese, dolci alle mandorle, bomboloni, cannoli con ricotta, etc, etc.. Non continuo perché altrimenti apro il frigo. Sì, ho la scorta. E…il fruttivendolo. Qualche sera fa, arrivo con la macchina davanti al fruttivendolo. Ero bruciata dal sole, piena di sabbia con una sana voglia di frutta fresca per cena. Dove andare, quindi? Dal fruttivendolo. Una stanza anticipata da due scalini. Al di fuori, trecce di aglio appese alla buona, cassette vuote di legno a terra, ammucchiate in maniera disordinata, quattro sedie di plastica di colore diverso davanti all’entrata, di servizio per la famiglia che attende i clienti. Entro e il marito della fruttivendola (che non avevo mai visto) mi saluta. Davanti a me quattro uomini. Mentalmente ho cominciato a scalpitare un po’. Tra me e me dicevo “sono le otto, son cotta, ho fretta, ho solo bisogno di quattro pesche, quattro albicocche e questi manco sanno cosa comprare, guardano la frutta senza riconoscere probabilmente una melanzana da una zucchina. In più ci si mette il marito della fruttivendola che parla ma non serve: almeno la moglie era “spiccia”! Ve bene – penso – ma avevano proprio l’aria di chi dovesse ancora decidere cosa fare per cena, come organizzarsi e cosa comprare. Ai miei occhi erano sonnolenti e mi veniva in bresciano un bel “ma dai, nóm!”. Nel frattempo, mentre questi cercavano di giungere a conclusione, entrava altra gente. Tutti lì, in un tre per quattro. Uno di questi,  vedendo una specie di focaccia davanti al bancone, ha domandato cosa fosse. E il marito della fruttivendola a spiegare che per sapere bisognasse assaggiare. Ha tagliato una mega fetta e l’ha divisa in strisce. Ad ognuno la propria. L’ha offerta a tutti: ai quattro moschettieri, a me, alle signore dietro. Uno dei clienti ha aperto la vetrina frigo e ha preso un litro di birra, ha chiesto un cavatappi e dei bicchieri. L’hanno aperta lì. Versata e dosata per tutti, anche per il marito della fruttivendola. Il fruttivendolo, che dopo quella scena era diventato tale (prima no, per me era solo il marito di), ha preso la birra, l’ha portata a fianco della cassa per non rovesciarla e ha cominciato a raccontare di come si facesse la focaccia; con il pecorino, l’aglio, il pomodoro e le acciughe. E noi tutti, prima frettolosi, ad ascoltare.

In quel momento ho sentito il sapore del ritmo siciliano. ‘a Sicìia!
Ecco, lì mi sono immaginata la stessa scena da Gildo. Ho sorriso e ho chiesto tre pesche e quattro albicocche. Gildo, arrivo. Ma tra un po’.

Il permesso

Ci sono strade e strade; fatte di pietra, dipinte da muschi ed erbe selvatiche. Anche quando non ci sei, esistono. Attendono. Pietre, le une vicine alle altre, posate per resistere al cambiamento, allo scorrere delle stagioni; ne vedi la superficie, ma non la parte essenziale. Gli avi hanno voluto non si slegassero mai, affinché la loro unione sostenesse il peso del tempo. La loro anima è nella terra. Il segreto è invisibile agli occhi.

La mulattiera che guarda in direzione dell’antico convento sovrasta il borgo; quella e quella solo mi conduce alla Parrocchiale. Ognuno percorre il proprio cammino, quasi un rituale. Lo sceglievo ogni giorno per andare a scuola, lo cerco oggi per avere il benestare. Perché qui, da sempre, la benedizione precede la tradizione: deve avvenire perché possa celebrarsi il resto.

Esco. L’oscurità e un foulard nero tessuto a mano mi avvolgono. Solo il rumore degli zoccoli rompe il silenzio, ma l’orecchio lo accoglie e accompagna il passo.

Da anni il Carnevale di Bagolino si svolge anche di domenica: si canta, ci si maschera, ma il vero Carnevale no, quello inizia solo il lunedì all’alba. E lo sappiamo. Per questo ci giustifichiamo con un “sì, ma è domani”; per rispetto, forse per scaramanzia, per inchino alla tradizione, perché quel nucleo ancestrale è un’eco per l’anima e scientemente ci ricorda come devono essere fatte le cose. E’ concesso, ma prima si deve chiedere il permesso.

Il cerchio

La regola che fissa la data della Pasqua cristiana fu stabilita nel 325 d. C. dal Concilio di Nicea. La Pasqua cade la domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera (21 marzo). Dalla Pasqua si calcola il mercoledì delle Ceneri e quindi il Carnevale. Dite la verità:  siete rimasti “alla prima luna piena…”? Anche io. :O)

Ogni anno, a Bagolino, la tradizione rivive. Vorrei che questo verbo, “rivivere”, fosse colto nel suo pieno significato. Già, perché dal 1500 ad oggi, quello che potete assaporare nel nostro borgo non è un forzato scimmiottare la vita di un tempo, ma è il mantenere una continuità con il passato; una continuità che non si spezza, sostenuta da un elemento originale, spontaneo che, se falsato, ti fa pagare pegno, ti  smaschera: la trazione orale. Questo evento non si svolge solo a Bagolino, ma anche a Ponte Caffaro, frazione sul Lago d’Idro (tredici chilometri di distanza e una rivalità secolare!).

Se ascoltate attentamente le musiche del Carnevale di Ponte Caffaro (che poi sono le stesse), le sonorità sono diverse e, in alcuni casi, anche il modo di ballare. E vi chiederete come sia possibile. E’ la forza della tradizione orale! Immaginatelo così: nel 1500 c’è un tale. Lo invento, si chiama Tonino. Suona il violino e sa a memoria tutte le ballate. Volete che, scendendo a valle perché si è sposato una caffarese, in 20 anni, senza uno spartito, non abbia cambiato una nota? Beh, colpa delle donne, direte! Forse… Ma forse ci sta anche che un giorno, Tonino, senza una traccia, abbia deciso che una nota gli piacesse di più di quell’altra. Le sonorità cambiano così, spontaneamente, nel tempo. Figuriamoci in più di cinquecento anni (nell’archivio comunale di Bagolino, uno dei più completi d’Italia, si testimonia che il carnevale fosse già presente nel XVI secolo. Si pensa, quindi, sia molto più antico). Il fatto di trovare diversità non è una mancanza, ma un plusvalore, la garanzia dell’autenticità di questo evento.

Cosa attira l’attenzione del visitatore che giunge a Bagolino? Credo, semplicemente, i ballerini,  i màscär, la gastronomia, la bellezza del territorio e… la musica.

Quando “parte” la musica, non importa che tu sia uno spettatore; col pensiero balli anche se non sai ballare. A suon di musica i foresti (già, se non siete del posto vi chiamiamo così) battono il piede per tenere il tempo!  I bagossi? No, i bagossi no – già li vedo – sollevano entrambi i talloni e vanno sulle punte più in alto o più in basso a seconda della cadenza (bagossi, lo so che state ridendo!).

Se osservi la fila dal fondo, noti le ultime figure. Ferme, aspettano il proprio turno. E un libero pensiero sorge spontaneo: “Almeno si riposano un attimo! Sono stanca io che li guardo, figuriamoci loro!” No, no! La coppia rimasta alla fine prende sotto braccio qualcuno tra il pubblico e gli “fa fare una ballata”. Le vesciche ai piedi, prima o poi, passano. Appunto, prima o poi. Ora si balla! Alle vesciche penseranno domani…

C’è un momento che vi vorrei raccontare ed è quello finale. Direte: non ci hai spiegato quando e come ballino e parti dalla fine? Beh, sì, inizio dall’Ariòzä. E come dice la parola è proprio ariosa nel senso che, oltre ad essere allegra, è l’unica che concede molto spazio ai protagonisti; si esegue in cerchio, nella piazza principale del borgo, il lunedì e martedì sera, come ultima danza. E qui vi svelo un aneddoto che mi fa morire dal ridere. Penso che non ci sia anno in cui non ci “abbiamo fatto un ricamo”. Ad ogni carnevale, il capo ballerino decide l’itinerario (il capo è il capo e il nostro è insostituibile!) Quasi ogni volta viene modificato (magari solo in parte) e – si discute – se sia migliore del precedente. Tutto perché? Per fare l’ Ariòzä ad un orario decente. Puntualmente il gruppo è in ritardo e puntualmente ce la ridiamo (e non per colpa del capo!). Ti vengono pure a dire che erano in anticipo: e noi glielo lasciamo credere! Tanto lo sappiamo che, se mangeremo, non sarà che verso le ventidue e che faremo di tutto per gustarci l’ultima fetta di salame appena prima che il campanone suoni l’inizio della Quaresima (e con tutto quello che abbiamo mangiato  e bevuto – qualcuno direbbe – se non ci riuscissimo, sarebbe meglio!). Abbiamo atteso un anno, un lungo anno prima di rivedere l’ Ariòzä: che ci costa un’ora in più o in meno?

La Piazza Marconi è luogo strano: non sembra nemmeno una piazza, forse perché storicamente non lo è mai stata. Ma quella sera, la sera del martedì di carnevale, l’agitazione si sente nell’aria e le case, come l’anima di uno strumento,  sembrano contenere e amplificare tutta l’emozione. Si girovaga un po’. Si pensa dove attendere i ballerini, cercando la postazione ideale, anche quella più impensata. In effetti, impensato lo era il tetto della vecchia cabina telefonica qualche anno fa, lo è la copertura del distributore ora o le “scàndole”(tegole di legno) dei carri costruiti per l’occasione. E, mentre aspetti, ti fanno compagnia  il freddo ed il buio, quel buio che le luci non riescono a vincere, puntate perennemente verso il basso, che ti ricordano che  vivi in questo stupendo borgo medievale, dove le ombre non sono meno importanti della luce.

Finalmente dalla strettoia spuntano i primi ballerini. La gente li saluta e dà loro coraggio: “I-è lé ültime sgoladüre (sono gli ultimi sforzi)!”.

Pian piano si mettono in cerchio. Ora, vi porto dentro a quel “cerchio”, così è come se foste tutti in prima fila. Non sentitevi estranei: balleranno anche per voi. La calca delle persone preme da dietro. Vi indico ora una ragazza. Cerca di riconoscere il suo amore dal disegno del cappello. L’oro di famiglia vi è stato sapientemente puntato e cucito. In particolare cerca un anello, il suo. Lo riconoscerebbe tra mille. Non ha scelto la trama; non è ancora sposata. Il suo Ballerino è mascherato, perciò la vista è limitata. Lei lo sa e lo chiama: “Bälärì, Bälärì!” I ballerini non possono essere chiamati per nome. Non sente. Allora lei lo chiama più forte. Lo chiama, perché lì, in quel momento lì, anche se l’ha visto dieci minuti prima, vale di più. Anche l’Amore, in  questo istante, vale di più. “Bälärì, Bälärì!” Ecco, lui si gira e la vede. La mano è ricoperta da un guanto bianco; la avvicina alla maschera e le manda un bacio. Lei alza il braccio ed è come se gli dicesse: l’ho preso! E sorride. Lui prende posto. Lei? Guardate i suoi occhi: lo segue con lo sguardo. Non lo distoglierà mai, nemmeno per un attimo.

E nella grande confusione di luci e colori, ecco, improvvisamente, un suono. Non un suono qualunque, ma il suono del contrabbasso: viscerale e profondo. Un richiamo che ci ha accompagnato per tutto il carnevale. Sapete, la notte, quando appoggiamo l’orecchio al cuscino, quando tutto è finito,  lo sentiamo ancora… “re, la, re, re – sol, la, re”. Questo è l’istante in cui realizzi che un altro carnevale è passato, in cui sei certo che ne è valsa la pena aspettare e, soprattutto, che non c’è altro luogo in cui vorresti stare, perché quell’attimo basta all’eternità.

Non scriverò della danza. Vi invito a vederla. Posso dirvi, però, che due sono i momenti che amo: il primo, è infinitamente piccolo. E’ il vuoto, il silenzio, che precede la prima battuta dei violini. E’ il tempo di un respiro, talmente profondo che credi che l’universo lo stia prendendo con te. I ballerini alzano le braccia, si prendono per mano, le stringono fino a tremare. In un gesto, si crea il sigillo che chiude quel cerchio. In quel preciso istante, senti che quel cerchio è il mondo ed il mondo è in quel cerchio: è l’energia visibile di quel fulcro ancestrale che ogni giorno, ovunque ci troviamo, ci ricorda prima di tutto chi siamo.

Il secondo momento è l’abbraccio, quell’abbraccio che vedi nascere spontaneo tra i ballerini alla fine, dopo l’ultimo suono del contrabbasso. E’ il segno che tutto è come è sempre stato e in cui senti che anche chi non c’è più non è voluto mancare.

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Foto di A. Nabacino, Album di Flickr di Monte Maniva http://www.flickr.com/photos/maniva/6755644771/in/set-72157625967167846